mercoledì 12 marzo 2014

Un anno con papa Francesco

Il 13 marzo un anno di magistero
di Simone Baroncia


Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo...ma siamo qui”. Sono queste le prime parole, pronunciate il 13 marzo 2013, del primo Papa Francesco della storia della Chiesa cattolica, Jorge Mario Bergoglio, argentino, 76 anni, gesuita, 266^ Pontefice.
Tanti avvenimenti e tanti discorsi, spesso a braccio, che hanno costretto molti giornalisti a vere ‘acrobazie’ linguistiche, ma anche una nuova vitalità per la Chiesa, come il discorso pronunciato al Celam (Conferenza episcopale latino americana), durante la Giornata Mondiale della Gioventù, svoltasi nel luglio scorso in Brasile. Esso conteneva i principi del suo ‘mandato’ papale, in cui auspicava un rinnovamento interno della Chiesa in dialogo con il mondo per una pastorale della misericordia, perché la Chiesa non è una ONG.

Riproponiamo alcuni passi significativi del discorso, perché è importante non solo per la Chiesa latino americana il documento di Aparecida (2007), che si colloca nella linea nei documenti scaturiti a Medellin, Puebla e Santo Domingo, ma per tutta la Chiesa stessa. Infatti nell’incontro con i vescovi papa Francesco ha sottolineato il bisogno del rinnovamento interno della Chiesa: “Aparecida ha proposto come necessaria la Conversione Pastorale. Questa conversione implica credere nella Buona Novella, credere in Gesù Cristo portatore del Regno di Dio, nella sua irruzione nel mondo, nella sua presenza vittoriosa sul male, credere nell’assistenza e guida dello Spirito Santo, credere nella Chiesa, Corpo di Cristo e prolungatrice del dinamismo dell’Incarnazione. In questo senso, è necessario che, come Pastori, ci poniamo interrogativi che fanno riferimento alle Chiese che presiediamo. Queste domande servono da guida per esaminare lo stato delle Diocesi nell’assunzione dello spirito di Aparecida e sono domande che conviene ci poniamo frequentemente come esame di coscienza”. Dopo alcune domande rivolte ai vescovi papa Francesco riprende le prime parole della Costituzione Pastorale ‘Gaudium et Spes’: “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e di quanti soffrono, sono a loro volta gioie e speranze, tristezze e angosce dei discepoli di Cristo”.
Da qui bisogna partire per instaurare il dialogo con il mondo: “La risposta alle domande esistenziali dell’uomo di oggi, specialmente delle nuove generazioni, prestando attenzione al loro linguaggio, comporta un cambiamento fecondo che bisogna percorrere con l’aiuto del Vangelo, del Magistero e della Dottrina Sociale della Chiesa. Gli scenari e areopaghi sono i più svariati. Per esempio, in una stessa città, esistono vari immaginari collettivi che configurano ‘diverse città’. Se noi rimaniamo solamente nei parametri de ‘la cultura di sempre’, in fondo una cultura di base rurale, il risultato finirà con l’annullare la forza dello Spirito Santo. Dio sta in tutte le parti: bisogna saperlo scoprire per poterlo annunciare nell’idioma di ogni cultura; e ogni realtà, ogni lingua, ha un ritmo diverso”.
Papa Francesco riprende in sintesi ciò che disse da arcivescovo di Buenos Aires il 25 agosto 2011 come saluto iniziale al Primo Congresso di Pastorale Urbana della regione di Buenos Aires: “La vicinanza, il ‘coinvolgimento’ e il sentire come il fermento faccia crescere l’impasto spingono la fede a desiderare di perfezionare ciò che le è proprio, lo specifico cristiano: per poter vedere indivise et inconfuse l’altro, il prossimo, la fede desidera ‘vedere Gesù’. E’ uno sguardo che, per includere, si concentra e si chiarifica a se stesso. Se ci situiamo nell’ambito della carità, possiamo dire che questo sguardo ci salva dal dover relativizzare la verità per poter essere inclusivi. La città odierna è relativista (tutto è valido), e forse a volte cadiamo nella tentazione di pensare che, per non discriminare, per includere tutti, sia necessario ‘relativizzare’ la verità. Non è così. Il nostro Dio che vive nella città, nella cui vita quotidiana si coinvolge, non discrimina né relativizza. La sua verità è quella dell’incontro che scopre volti, e ogni volto è unico. Includere persone con volti e nomi propri non implica relativizzare valori né giustificare antivalori; al contrario, non discriminare e non relativizzare implica avere la fortezza per accompagnare i processi e la pazienza del fermento che aiuta a crescere. La verità che accompagna è quella che mostra percorsi futuri più che giudicare le chiusure del passato. Lo sguardo dell’amore non discrimina né relativizza perché è misericordioso”.
Consapevole delle tentazione di chi è impegnato nella missione, il papa sottolinea alcuni criteri ecclesiologici: “La Chiesa è istituzione, ma quando si erige in ‘centro’ si funzionalizza e un poco alla volta si trasforma in una ONG. Allora la Chiesa pretende di avere luce propria e smette di essere quel ‘misterium lunae’ del quale ci parlano i Santi Padri. Diventa ogni volta più autoreferenziale e si indebolisce la sua necessità di essere missionaria. Da ‘Istituzione’ si trasforma in ‘Opera’. Smette di essere Sposa per finire con l’essere Amministratrice; da Serva si trasforma in ‘Controllore’. Aparecida vuole una Chiesa Sposa, Madre, Serva, più facilitatrice della fede che controllore della fede”.
Ai vescovi ha detto di ‘applicare’ la ‘rivoluzione della tenerezza’ che provocò l’incarnazione del Verbo: “Vi sono pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli. Da questo tipo di pastorali ci si può attendere al massimo una dimensione di proselitismo, ma mai portano a raggiungere né l’inserimento ecclesiale, né l’appartenenza ecclesiale. La vicinanza crea comunione e appartenenza, rende possibile l’incontro. La vicinanza acquisisce forma di dialogo e crea una cultura dell’incontro. Una pietra di paragone per calibrare la vicinanza e la capacità d’incontro di una pastorale è l’omelia. Come sono le nostre omelie? Ci avvicinano all’esempio di nostro Signore, che ‘parlava come chi ha autorità o sono meramente precettive, lontane, astratte?... I Vescovi devono essere Pastori, vicini alla gente, padri e fratelli, con molta mansuetudine; pazienti e misericordiosi”.
Concetto che riprende sempre dal discorso del 25 agosto 2011: “Lo sguardo dell’amore non discrimina né relativizza perché è uno sguardo di amicizia. Gli amici li si accetta come sono e si dice loro la verità. E’ anche uno sguardo comunitario che spinge ad accompagnare, ad aggiungere, a stare maggiormente accanto agli altri cittadini. Questo sguardo è la base dell’amicizia sociale, del rispetto delle differenze, non solo economiche, ma anche ideologiche. E’ anche la base di tutto il lavoro del volontariato. Non si può aiutare chi è escluso se non si creano comunità inclusive. Lo sguardo dell’amore non discrimina né relativizza perché è creativo. L’amore gratuito è fermento che mette in movimento tutto ciò che c’è di buono e lo perfeziona, trasforma il male in bene, i problemi in opportunità. Il pastore che guarda con lo sguardo dell’agape scopre le potenzialità che sono attive nella città e simpatizza con esse, fermentandole col Vangelo… Dio vive nella città, e la Chiesa vive nella città. La missione non si oppone al fatto di imparare dalla città, dalle sue culture e dai suoi scambi, nel momento stesso in cui usciamo per predicarle il Vangelo. Questo è un frutto del Vangelo stesso, il quale interagisce con il terreno nel quale cade come seme”.

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